Gruppi di genitori: una risorsa sostenibile

Gruppi di genitori: una risorsa sostenibile

– Marta Gianaria –
Psicologa Psicoterapeuta

Per molto tempo la psicoanalisi ha guardato alla relazione madre-bambino come unità primaria nella nascita psicologica dell’individuo, indicando in questa prima configurazione relazionale la responsabilità di uno sviluppo sano o patologico dell’individuo.
La causa della psicopatologia in età evolutiva era da rintracciarsi in forme disfunzionali all’interno di questo primo legame, con relativa valutazione di adeguatezza/inadeguatezza sulla figura materna.
Vorremmo contribuire a ridimensionare questa posizione spesso colpevolizzante nei confronti delle madri perché, nella nostra esperienza clinica, proprio loro che partecipano più spesso ai gruppi di genitori e/o che cercano soluzioni alle difficoltà dei figli, sono in realtà agenti attivi nel processo “di cura”.
In questa faticosa e non scontata operazione, che comporta l’assunzione di un’empasse nel ruolo genitoriale e la messa in discussione della propria modalità, le madri presidiano fortemente la dimensione evolutiva, nella famiglia e nei figli.

Quindi il livello attraverso cui si promuove la cura (le madri, i padri, la coppia genitoriale) non necessariamente coincide con il livello eziologico del disturbo.

I pensieri che seguono pongono l’attenzione anche sulla dimensione culturale, come caratteristica specifica della nostra natura.
Oggi grazie anche al contributo della teoria dei sistemi e del paradigma etologico, la famiglia è vista come un insieme in interazione costante con altri sistemi (cultura, comunità, gruppi intermedi, ecc.) tutti implicati nella costruzione dell’identità. Se vogliamo fare un excursus anche psicosociale, possiamo osservare che i meccanismi inconsci dei grandi gruppi hanno una ricaduta sugli altri livelli e le loro configurazioni costituiscono una caratteristica di campo che contribuisce a creare i fenomeni nel singolo e negli altri gruppi (Traveni et al, 2011). Esistono fenomeni collettivi che corrispondono ad angosce nella società, spesso inconsce, e che producono effetti negativi su diversi livelli.
Ad esempio Giuseppe Di Chiara s’interroga su quanta diversità possa tollerare un sistema (individuale, collettivo) senza “rompersi” e ugualmente, guardando le trasformazioni accelerate degli ultimi 50 anni, viene da chiedersi “quanto cambiamento” è possibile assorbire senza frantumarsi.
A questo proposito la coesione sociale o viceversa la sua frammentazione, l’isolamento e l’incomunicabilità sono indici di salute o di malattia che ritroviamo negli individui e nei gruppi che lo compongono. Le forme di malessere psicologico, che comportano una progressiva chiusura, l’irrigidimento del pensiero e l’inaridimento dello scambio con il corpo sociale, potrebbero corrispondere verosimilmente ad una sindrome psicosociale che si manifesta con progressive disintegrazioni dei legami come elemento di sfondo dell’intera comunità.
La nostra ipotesi è che la famiglia si trovi come sempre nello sviluppo degli individui in prima linea, come nodo strategico per la trasmissione e il trattamento, tra il sociale allargato e il livello individuale.
Perché i gruppi di genitori?

L’utilizzo dei gruppi omogenei nel trattamento psicologico ha una storia recente e il crescente impiego di questo nuovo format psicoterapeutico risponde a questioni che riguardano i bisogni dell’individuo e le caratteristiche del nostro sociale.
Gli individui nascono all’interno di contenitori biologici (famiglia, clan, comunità) che danno una forma, un ritmo ai processi di percezione di Sé e del mondo (Corbella, Girelli, & Marinelli, 2004). Il piccolo gruppo d’appartenenza, che rifornisce di omogeneità e somiglianza, è una struttura costitutiva della mente, un primo sistema per l’elaborazione e la digestione dell’esperienza.
Se i gruppi omogenei corrispondono a queste configurazioni di legami, con tutte le dinamiche di rispecchiamento, omologazione, individuazione che essi comportano, il loro utilizzo come dispositivi di trattamento può essere funzionale, perché permette ai partecipanti di ritornare ad una matrice primaria e di affacciarsi su un terreno “famigliare”.
Questi contenitori psicosociali d’altra parte assumono maggiore utilità nel momento in cui vediamo disaggregarsi i loro precursori culturali (famiglia, comunità, ecc.) sotto le sollecitazioni impresse dalle nuove forme nei legami e nei confini della società. I gruppi omogenei che funzionano anche come gruppi d’appartenenza si prestano quindi utilmente a compensare questa rarefazione nelle maglie del sociale. La possibilità di un ritorno periodico a spazi intimi di condivisione e d’appartenenza che permettano di confrontarsi su una base comune, sufficientemente sicura e solida, può supportare l’identità. Fungono cioè da fattore protettivo rispetto alle forze centripete presenti nell’esposizione ad un alto livello di eterogeneità, che poco spazio lascia al pensiero, alla riflessione, alla metabolizzazione delle esperienze.
Nei gruppi di genitori ad esempio il discorso a partire da situazioni condivise si apre sulle modalità relazionali che sostengono un’evoluzione e si tralasciano gli aspetti che coattivamente riproducono il disagio. E’utile spostare il focus del gruppo in direzione della cosiddetta parte sana della mente, del bambino e del sistema famigliare, e contrastare gli aspetti relazionali connessi alla parte sofferente. La possibilità di trasformazione passa cioè attraverso un diverso modo di esserci degli adulti di riferimento che, ricostruendo e ampliando le narrazioni sul proprio sistema famigliare, possono introdurre modalità nuove e adatte a rimettere in moto la crescita del ragazzo e del suo contesto.

Psicologa Psicoterapeuta Marta Gianaria